***
Rialzai
la testa dalla scrivania e con la coda dell’occhio mi diressi verso l’angolo a
lato della finestra. Vidi la cravatta penzolante dal servo muto. Un altro numero
fuori posto. La riposi nell’armadio assieme al vestito. Era ormai buio. Dalla
finestra intravedevo l’ombra ancora più scura del nespolo che allungava i suoi
tentacoli minacciosi sul mio giardino. Abbassai la serranda.
La
mattina seguente mi alzai, tirai su la serranda della camera da letto fin solo
ai buchi, mi vestii, feci il nodo alla cravatta davanti allo specchio dell’anta
interna dell’armadio, bevvi un bicchiere d’acqua dal rubinetto della cucina e,
presa la cartella con i fascicoli contabili, mi avviai verso l’uscita. Mentre stavo aprendo la porta
sentii delle voci provenire dal pianerottolo. Mi misi allo spioncino. Vidi la
sig.ra Guerrieri con i bigodini in testa ed un sacco della spazzatura in mano che
diceva “...speriamo che sistemi anche il giardino, già quello del sig. D’Oblìo
è un’indecenza…Ma poi tu l’hai mai visto in giardino, Manuela?”. “
Sulle
labbra di Manuela un rossetto brillante “No, davvero, mai. Sembra una persona
strana, come spenta. Ne ho incontrati così in Siria, ma, in fondo comunque si
intravedeva una fiammella. Lui sembra non avere neanche quella. Eppure non
posso credere non ci sia proprio nulla sotto quello sguardo vuoto”.
La
vidi allargare le braccia, notai le unghie smaltate dello stesso rosso del
rossetto. Richiusi lo spioncino e aspettai ad uscire.
Contavo
i giorni mancanti alla fine del mese previsto per la fine dei lavori, cercando
di evitare il più possibile contatti con il capo mastro.
Una
sera tornai dall’ufficio con il dischetto della contabilità del mese da
caricare sul pc. Un fremito di impazienza mi spinse a non far caso alla porta
aperta nell’appartamento di fronte.
“Salve
dottor D’Oblìo, abbiamo finito, ha visto? Tutto come previsto” l’uomo col metro
da muratore conficcato nella tasca della giacca di velluto marrone era visibilmente
soddisfatto “ora avrà un nuovo vicino”.
“Buonasera,
ma quando arriverà?” gli chiesi con un filo di voce.
“Questa
sera stessa. Lo sto aspettando per il saldo dei lavori e per aiutarlo a fare
alcune rifiniture nel giardino. Vuole dare un’occhiata alla casa nel
frattempo?”
“No,
no grazie” mi ritrassi nella borsa di pelle sdrucita come a cercare documenti
importanti “devo sistemare alcune cose a casa mia. Arrivederci”
Mi
richiusi la porta alle spalle e, contro ogni istinto ad allontanarmi il più
possibile, mi fermai. Posai la borsa sulla scarpiera laccata bianca di fianco
alla porta e appoggiai l’occhio allo spioncino.
La
tensione si sciolse in uno sfuggente sorriso al suono del rassicurante
sciabbattare della signora Guerrieri. Prima che apparisse nel mirino non
faticai ad immaginarla, come ogni giorno dall’arrivo della primavera, fermarsi,
innaffiatoio in mano, davanti ai vasi di ficus benjamin che con tanto orgoglio
ha fatto mettere nel pianerottolo dell’entrata “questo palazzo deve sembrare
signorile, che diamine!”. Poi controllare una per una tutte le foglie e infine
imprecare “se prendo quello stronzo che si diverte a rovinare le piante…ci sono
i segni delle unghiate sulle foglie ...vede…che divertimento è questo…se
continua così me le riporto a casa”. Infine risciabbattare sulle scale con le
tasche della vestaglia viola imbottite delle foglie danneggiate.
Dopo
un po’ nel mirino apparve la capigliatura rasta del figlio della signora
Corneli, subito seguito dal sig. Cuomo che lo inchiodò prima che prendesse le
scale “Ah Dario, meglio che aspetti ad andare a casa. Con quella fiatella de
fumo che te se sente tu madre te crocchia”.
Ormai
era buio e io stavo sempre inchiodato dietro lo spioncino. Per stare più comodo
mi ero seduto su una sedia con lo schienale appoggiato alla porta e il viso
sulla spalliera. Il click meccanico dell’apertura del portone mi scosse. Un
labrador zampettò sull’uscio di fronte appostandosi col muso di fronte alla
porta. Il padrone di spalle stava tenendo aperto il portone per qualcuno che
stava arrivando. Nell’altra mano un guinzaglio ed una borsa celeste pquadro.
“Grazie
mille” la voce di Manuela la precedette nel mirino, casco in mano e capelli
sciolti. Cominciai a sudare, chiusi lo spioncino e mi allontanai in casa. Andai
in camera da letto accesi il pc e inserii il dischetto. Lo tolsi subito, spensi
il pc e cercai di dormire.
Sobbalzai
dal letto.
“Klang,
klang, stump, stump!”
I
rumori sembravano provenire dalla stanza adiacente.
“klang,
klang, stump, stump!”
Un
ladro non farebbe tutto questo chiasso, cercavo di razionalizzare. Sarà il
camion della spazzatura.
“klang,
klang, stump, stump!”
Il
rumore sembrava vicinissimo. Non poteva essere il mezzo dei netturbini. Mi alzo/non
mi alzo. Alla fine mi avvolsi nelle lenzuola inzuppate di sudore freddo e mi
trascinai furtivo verso la finestra. Si udiva ora un calpestio alternato
ad ansimi da sforzo. Non osai alzare la
serranda. Tornai a letto e scomparvi sotto le coperte.
“Oddio
che faccia, ma che è successo?” mi fece Manuela l’indomani mattina sul
pianerottolo.
Lo
sapevo, proprio in questo stato la dovevo incontrare, pensai sollevando la
testa, occhi al soffitto.
“Non
sono riuscito a dormire stanotte” le risposi.
“L’hai
visto?” Il suo volto si illuminò.
“Visto
chi?” mi passai la mano sulla testa.
“L’avvocato!
Ha preso possesso ieri della casa. Ha anche un cane bellissimo. Si chiama Buck
ed è proprio buono, non abbaia mai” sembrava davvero entusiasta.
“Ah
si!” abbassai lo sguardo e vidi la borsa di pelle marrone sdrucita pendere
dalla mia mano destra. La mano sudava e sentivo scaglie di cuoio appiccicarsi
ai polpastrelli.
La
sera stessa rientrai a casa e mi sedetti a tavola in veranda. Di colpo una luce
illuminò il giardino. Il pezzo di pizza al taglio restò sospeso a mezz’aria
abbarbicato alla forchetta. Misi giù la forchetta e mi accostai alla porta a
vetri. La luce non proveniva dal mio giardino.
“Deve
essere lui” mi dissi.
Con
circospezione uscii. La porta finestra di accesso al giardino cigolava come
quelle delle case abitate dai fantasmi. Appena oltre la soglia mi sentii
chiamare. Dietro il muretto di recinzione un braccio ondeggiava invitando ad
avvicinarmi. In effetti era un bell’uomo. Abbastanza alto, gli occhi chiari e
penetranti, la barba ben curata che gli segnava il perimetro del volto a dare
un’idea di spigliata risolutezza.
“Caro
vicino, finalmente ci conosciamo” disse tendendo il braccio oltre il muretto
attraverso una fessura della rete metallica. Gli strinsi la mano e buttai lì un
“piacere” strozzato, tentando di sottrarmi alla stretta micidiale.
In
quel momento il muso di un feroce labrador si avventò sul muretto abbaiando
verso di me.
“Buono
Buck, è il nostro vicino” il cane si calmò subito mentre lo accarezzava “fate
amicizia, su. Accarezzalo anche tu, in genere non abbaia mai. Chissà, sarà la
nuova casa”.
Io
indietreggiai terrorizzato. Senza avvicinarmi guardai nel suo giardino. Il
nespolo era stato potato, il terreno ripulito e piastrellato. Sotto l’albero
c’era un tavolo con una tovaglia, una scodella di insalata, un piatto con una
fetta di pesce spada, un melone e una bottiglia di vino bianco.
“Vedo
che ha apparecchiato fuori”.
“Eh
si, mi piace stare all’aperto. E poi voglio godermi il giardino dopo averlo
sistemato. Era conciato come il tuo appena sono arrivato. Perché non gli dai
una ripulita?”
“Ha
ragione, mi dico sempre che dovrei fare qualcosa ma poi mi passa di mente. E’
come se non trovassi mai il tempo” gli dissi e feci per eclissarmi.
“Su
su, se si vuole veramente una cosa il tempo per farla si trova” mi disse.
Mi
bloccai e rimasi a fissare il suo giardino e poi girai lo sguardo verso il mio.
“Perché
non viene a mangiare da me? L’insalata è troppa per me solo e il pesce spada lo
possiamo dividere” continuò l’avvocato aprendo le braccia.
“No
no la ringrazio, ho già pronta la cena. Arrivederci” balbettai e mi rintanai in
casa.
***
“Klang klang stump stump”
non
riuscivo ad addormentarmi
“klang
klang stump stump”
ma
perlomeno ero più tranquillo
“klang
klang stump stump”
anche
se stavolta i rumori li sentivo ancora più vicini.
“klang
klang stump stump”
Rimasi
comunque sotto le coperte finché gli ultimi colpi non cessarono e mi potei
addormentare. La mattina uscii senza nemmeno alzare la serranda
“Lo
sai che mi ha invitato a vedere il giardino nuovo?” Manuela era raggiante
quella mattina sul pianerottolo.
“A
casa sua?” la mia voce tremò mentre lo sguardo si inabbissò.
“E
di chi allora?” disse sollevando gli zigomi e allungando la fessura tra le
labbra. Uhmmm!
Il blocco di cemento ha avuto un impercettibile cedimento?
“Dai,
magari invita anche te. Ciao eh” disse e caracollò via.
Tornai
verso casa che era ormai buio. Meglio restare in ufficio fino a tardi godendo
dell’aria condizionata e uscire poi col fresco della sera. Diedi la solita
occhiata distratta alla buca delle lettere. Nella mia non c’era nulla, ma in
quella dell’avvocato vidi una cartolina. Non era di cartoncino, ma di plastica.
Un sole stilizzato si affacciava dalla fessura e illuminava il pianerottolo. Strinsi
la cartolina tra il pollice e l’indice. Il sole appariva in rilievo sopra una
morbida trasparenza. Sbirciai sul retro. Un pennarello rosso tracciava segni
ampi e rotondi intervallati da smile
e nuvolette con dentro punti esclamativi e piccoli fulmini. Sicuramente era una
donna. Rimisi la cartolina nella buca. Non ebbi il coraggio di prenderla in
mano e leggerla. Entrai in casa e senza accendere la luce gettai la borsa con
le pratiche d’ufficio sul divano. Mi girai verso la veranda. Un bagliore bianco
filtrava da fuori. Mi avvicinai e rimasi col naso appiccicato sul vetro e la
saliva secca. Dalla bocca rimasta aperta fuoriusciva un’involontaria esalazione
che si condensava in piccole goccioline. Il muro di divisione che separava il
mio giardino da quello dell’avvocato era scomparso. Da quest’ultimo partiva un
sentiero di dischetti di cemento di vari colori che arrivava fino alla mia veranda.
Ai lati Manuela e l’avvocato stavano sistemando gli ultimi due lampioncini verdi.
Sorridevano. Non si erano ancora accorti di me. Inserirono contemporaneamente
le lampade alogene dentro i due prismi di vetro, apposero la copertura e
alzarono gli occhi. La luce ora era più intensa e i nostri sguardi si
incrociarono.
“Oh,
vicino, che fai là dietro? …. Sembri un fantasma, vieni fuori” disse
l’avvocato.
“Dai,
vieni a vedere come è bello adesso fuori” aggiunse Manuela.
Aprii
la veranda e mi guardai intorno. Non riuscivo a riconoscere il mio giardino, ma
era ancora mio? Gli alberi potati, l’erba tagliata, scomparse le cartacce, le mollette
dei panni, le buste di plastica, i bicchieri di plastica, i tappi di bottiglia,
i mozziconi di sigaretta e le altre robacce che lo deturpavano. Al centro del
sentiero c’erano due aiuole con boccadileone e lavanda. Quel profumo pulito
soffiò tenere carezze sulle mie mascelle indurite.
“Ma
come avete fatto?” balbettai
“Ti
piace?” disse lei.
Aveva
i capelli raccolti dietro, in una fascia viola che le cingeva il viso. Si sedette
su una panchina che non avevo notato prima.
“Pensavamo
di organizzare una festa per sabato prossimo. Lo spazio è così grande ora”
disse l’avvocato.
Deglutii
e feci per tornare dentro la veranda.
“Si,
potremmo anche mettere della musica e ballare” le fece eco Manuela.
“Io,
io …. devo andare al paese a trovare i miei genitori nel fine settimana” dissi.
Poi mi girai verso la veranda e mi chiusi dentro.
Poi mi girai verso la veranda e mi chiusi dentro.
***
La
settimana successiva mi trascinai col trolley fino a casa. Entrai nel portone e
mi fermai davanti alla porta dell’avvocato. Fissai lo zerbino. Mi piaceva quello
zerbino. Era un’enorme coccinella verde con i puntini verde scuro e le antenne che
rompevano con la loro fuga l’armonia e le proporzioni della sagoma. Mi portai
le mani sul volto e il mondo si fermò in sospensione per qualche secondo …. per
precipitarmi addosso subito dopo. Mi scossi a fatica e feci quei due passi che
mi separavano da casa. Girai le chiavi nella serratura e spinsi la porta in
dentro.
Sbammm…
La
richiusi subito facendo un salto all’indietro sul pianerottolo. Dentro casa un
fascio inaspettato di luce giallastra tagliava la parete del corridoio,
trasportando sul proprio riverbero un flebile chiacchiericcio e un cane che mi
si avventava abbaiando contro.
Rintanato
sul pianerottolo, cominciai a sudare freddo. Gettai gli occhi per terra. Il
pavimento sembrava mi girasse intorno tracciando avvolgenti spire paraboliche.
Cercai di fermarlo concentrandomi sulla soglia di casa. Non riuscivo però ad
aggrapparmi a nulla. Io non lo avevo uno zerbino.
Passò
qualche secondo e la porta di casa mia si aprì. L’avvocato indossava un
grembiule arancione sopra una camicia bianca “Ma …. eri tu? Perchè hai sbattuto
la porta? Entra”. Lo seguii. Un odore di soffritto mi accarezzò la gola. Effluvi
speziati coloravano di oriente le pareti
dell’ingresso, morbide fragranze che mi scioglievano i muscoli dello stomaco. Cous-cous.
Avevo visto in tv famiglie intere madri-padri-figli-nonni-zie-cugini-fidanzati-sposi-guerriglieri-imam-pastori-funzionari-mercanti
e
parole-musica-suoni-odori-grida-bisbiglii-silenzi-barbe-seni-turbanti-veli-gambe-braccia
intorno all’enorme piatto comune e mani nude-callose-liscie-grasse-morbide-affusolate-piccole-scure-screpolate-chiare-decorate
con ennè che scavavano crateri nella montagna di chicchi fumanti, raccogliendo
porzioni di condivisione che mescolavano tra le dita e conservavano dentro le
viscere. Da quanto non compravo cipolle?
Appoggiai
il trolley da un lato sulla parete del corridoio e chiusi gli occhi. La pelle
vibrava di sensazioni. La testa era soffice e leggera. Seguii il naso. Per un
attimo il terreno sotto i piedi era scomparso. Levitavo? Riapersi gli occhi
all’entrata della veranda.
Due
stivali neri accavallati sulla panca preannunciavano un volto nascosto da
lunghi capelli neri dai quali fuoriuscivano cerchi di fumo. Sotto gli stivali
un muso di Labrador si strofinava sul pavimento con la coda che oscillava come
un metronomo, ritmicamente felice. Di fianco una ragazza con i capelli ricci e
rossi spargeva le sue lentiggini sul tavolo a fare spazio per l’arrivo delle
pietanze.
Entrai
in veranda. In quel momento il cane abbaiò.
“Buono
Buck” lo accarezzò la donna e il cane si calmò subito.
Poi
guardai nel giardino illuminato. Dalla capigliatura di Dario fuoriusciva fumo
denso. La madre al suo fianco parlava con il signor Cuomo.
“E’
arrivato finalmente? Si tolga quella cravatta e si unisca a noi” mi fece la
signora Guerrieri posando un vassoio colmo di insalata sul tavolo.
Al
suo fianco un uomo con una calvizie incipiente versava del vino rosso su un calice
stretto tra le dita smaltate di una donna in tailleur blu. “Versa, versa, ma
non dirmi niente. Scommetti che indovinerò che vino è e quale cantina lo
produce?” diceva la donna con voce calda da nera, mentre si girava dall’altra
parte per non vedere l’etichetta sulla bottiglia.
Poi
la vidi. Stava entrando in veranda dal giardino reggendo un cabarè con un
completo da thè. Le dita con le unghie smaltate di verde stringevano la teiera
d’argento in un delicato movimento che mi accarezzò l’anima. Versò il thè che
odorava di menta in bicchieri dai vetri violacei sui quali frondosi disegni
floreali creavano magie dorate. Gli occhi azzurri erano diventati di un blu
profondo che sembrava riflettere il viola dei bicchieri. Mi concentrai
ferocemente a cercare qualche parola da dire. Volevo fortissimamente parlare
per primo. Schiusi le labbra, ma appena stavano per fuoriuscire abbozzi di
suono me li ringoiai di colpo. Una mano si posò sulle mie spalle tagliando ogni
via d’uscita “Allora vicino, hai visto come sta bene Manuela con quella camicia
verde che le ho regalato?”
Un
fiotto di pece nera si sparse sugli orifizi della mia pelle occludendo ogni
emozione. Mi sentii svuotare. La testa prese a girare.
“Devo
andare un attimo in bagno” dissi. Mi diressi invece verso la porta di casa. La
aprii e me la richiusi alle spalle. Appoggiato con la schiena alla porta
guardavo su il vuoto di un grigio indistinto. Poi abbassai lo sguardo e vidi una
macchia verde sfocata. Mi avvicinai allo zerbino. Con il palmo della mano ne
tastai la morbida consistenza. Mi sedetti sopra e chiusi gli occhi. Poi presi
le antenne, me le avvolsi sulle spalle e cominciai a ruotare sotto di esse. Mi accucciai giù, la testa tra le gambe, mentre
continuavo ad avvolgermi dentro lo zerbino. Feci un caldo respiro … e scomparvi.
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